Tino Tracanna: i frutti di una lunga carriera
Il secondo classificato nella categoria «Musicista dell’anno»
ci parla del suo bel momento creativo
di Monica Carretta
Dopo una lunga carriera ricca di incisioni e concerti, il 2016 è l’anno in cui hai ottenuto un eccellente successo sia personale che come leader del quintetto Acrobats. L’album «Red Basics» testimonia una complessa ricerca compositiva che concilia melodia e cantabilità con ricerche timbriche, dinamiche e di colore che compongono un quadro musicale di grande maestria. Raccontaci come nascono le tue composizioni e di questo progetto.
Il gruppo è nato nel 2012 e ha una storia abbastanza complicata. Il primo disco, «Acrobats» (Abeat), fu fatto al volo entrando in sala d’incisione dopo pochissime prove, con alcuni pezzi composti appositamente e altri creati direttamente in studio. Nonostante ciò andò bene ed è un disco che continua a piacermi.
È molto difficile far concerti riunendo cinque elementi che hanno progetti individuali e che, come Antonio Fusco, vivono all’estero, eppure riuscimmo a farne un buon numero.
Così continuai a comporre brani per questo gruppo, pensando alle qualità specifiche di ciascuno e attingendo alle mie esperienze, come ad esempio la mia passione per la musica informale. Dopo un paio d’anni ho raccolto molto materiale e siamo tornati in sala d’incisione.
Pallida Luna è un brano assai libero e con una struttura tonale che appare solo alla fine, Mercato dei Pazzi proviene invece da un disco del mio quartetto, un’esperienza bellissima durata quasi quindici anni con Francesco Petreni, Marco Micheli e Massimo Colombo, con i quali ho inciso innumerevoli album. Red è un brano basato su una ritmica quasi seriale e una continua ricerca delle note. Jelly’s Quantum Stomp è un brano di puro divertimento: a volte mi piace comporre qualcosa di più leggero, pensando anche ai concerti.
Cerco sempre di costruire un album come se fosse un concerto, con brani tormentati come Incantamento e altri più gioiosi, un tratto che negli ultimi tempi il jazz sta purtroppo perdendo. Sins era già stato inciso in duo con Giulio Corini, per un album che vorrei pubblicare l’anno prossimo e da cui ho tratto anche Basics, un brano molto melodico, quasi infantile, che richiama molto le atmosfere ornettiane. Insomma, il nuovo disco contiene molti momenti del mio passato, dal free che facevo un tempo e cui sono rimasto molto legato fino a strutture legate alla tradizione.
Acrobats è un gruppo che non suonava da quattro anni ma che cerco di tener vivo nonostante le difficoltà economiche del periodo e quelle – ancora maggiori a causa dei molti impegni di ciascuno – di essere liberi tutti e cinque nello stesso momento...
Quando componi pensi alle caratteristiche dei singoli membri del gruppo e poi, nell’esecuzione, lasci campo libero?
No, porto il pezzo con già un’idea precisa ma di solito ne discuto con gli altri musicisti. Per esempio, lascio scegliere al batterista una scansione ritmica di suo gradimento.
Diventa così una sorta di elaborazione collettiva, capita anche che sia io a cambiare idea rispetto a quella di partenza e questo mi fa piacere, pur nel rispetto dell’imprinting che ho cercato.
Il sax tenore che suoni è uno strumento d’epoca e attesta la tua passione per la storia che contiene o per caratteristiche oggettive?
Ormai penso di essere diventato un po’ maniacale, ma una volta gli strumenti erano costruiti in maniera diversa, con le lastre di metallo battute a mano da artigiani che curavano i minimi particolari.
Hanno un’anima e un suono particolare, strumenti fatti a distanza di pochi mesi erano molto differenti proprio perché opera di artigiani diversi.
L’artigiano è un artista, che comunica allo strumento qualcosa di irripetibile. Possiedo strumenti più recenti e, tutto sommato anche più potenti, ma adesso ne sto usando uno degli anni Quaranta che sì, mi dà anche qualche problema ma contiene l’anima di chi l’ha costruito. Magari, però, è tutta immaginazione!
La passione per i sassofoni d’epoca ti accomuna a Massimiliano Milesi, con cui hai registrato, insieme a Giulio Corini e Filippo Sala, l’album «Double Cut» uscito sempre nel 2016. L’insolita front line dei due sax dialoga con la ritmica tracciando una serie di incontri e scontri, di doppi segni e doppie visioni che si sovrappongono.
Tutto è nato perché Massimiliano frequentava il conservatorio di Milano e, pur essendo ambedue di Bergamo, non ci conoscevamo. Abbiamo scoperto di avere in comune interessi extra-musicali come la lettura di testi scientifici, sull’universo o l’infinitamente piccolo e argomenti del genere: è un mondo che mi affascina molto e, nel tentativo di comprenderlo, ispira anche la mia musica. A pensarci bene è tutto collegato, la musica stessa è un fenomeno fisico.
Abbiamo iniziato a scambiarci gli strumenti e le informazioni su quelli d’epoca e abbiamo deciso di suonare assieme, pensando e organizzando brani per due sassofoni.
Dopo vari concerti abbiamo pensato di allargare il duo con una sezione ritmica e abbiamo iniziato a lavorare insieme a Corini e Sala. Il gruppo è molto affiatato. «Double Cut» è stato inciso nel 2014 e contiene brani miei e di Milesi. Credo di avere una visione compositiva molto adatta a questo quartetto e i brani che ho portato sono stati arricchiti dal contributo di tutto il gruppo, con complicità e condivisione creativa.
Nell’atmosfera ho sentito qualcosa di ayleriano. O sbaglio?
Immagino tu ti riferisca a In Sulle Cime, pensato proprio secondo lo stile di Albert Ayler: musicista che io e Milesi amiamo molto. Con i suoi canti popolari l’abbinamento era perfetto, come «Red Basics» lo è con lo stile di Ornette Coleman.
In quest’album ci sono molte e diverse ispirazioni, che potevano rendere l’ascolto un po’ difficile.
Credo invece che scorra bene, ha ricchezza timbrica e melodica, suoniamo strumenti come la melodica e c’è una mia improvvisazione con le steel tongue drums, allo scopo di ottenere in piena libertà risultati interessanti.
L’ispirazione è tipicamente jazzistica, per la sua capacità di rielaborare materiale diverso.
L’anno appena iniziato ti vedrà protagonista di una nuova esperienza. Dave Douglas, il direttore artistico di Bergamo Jazz, ti ha invitato a selezionare gruppi di giovani jazzisti che avranno uno spazio all’interno del programma. Come hai affrontato questa sfida?
L’anno scorso, in duo con Milesi, ho suonato a Bergamo Jazz. Così parlando con Douglas, che al suo primo anno di direzione non conosceva bene la città e le sue dinamiche interne, è nata l’idea di dare uno spazio ai giovani.
Da insegnante, è un’esigenza che sento urgente in ragazzi tecnicamente molto bravi ma che, rispetto alla mia generazione, sono penalizzati dalla mancanza di spazi adatti e dalle rare occasioni di avere visibilità con articoli e recensioni.
Suonare all’interno di una prestigiosa rassegna offre la possibilità di essere ascoltati dai giornalisti del settore e da un pubblico specializzato e appassionato. Douglas conosce bene questo problema, che non è solo italiano ma anche statunitense, e ha prontamente aderito.
Così mi sono messo al lavoro: ho ascoltato un sacco di dischi e di concerti, anche di ragazzi suggeriti da colleghi e allievi del Conservatorio, e ho selezionato una ventina di progetti sottoponendoli a Dave.
Alla fine abbiamo deciso assieme chi presentare. Per me insegnante è stata un’esperienza molto bella, che ha completato il mio ruolo aiutandoli a portare i loro progetti originali, freschi e interessanti: non repliche di qualcosa già ascoltato ma rielaborazioni di ciò che i ragazzi acquisiscono durante i viaggi e gli ascolti.
Ho cercato di adattare i diversi gruppi agli spazi disponibili e di offrire un ampio ventaglio di proposte sia dell’area improvvisata sia di quella più tradizionale. Sono stato felice e onorato di aver potuto contribuire all’interno dell’organizzazione del festival e del Comune che con lungimiranza mi ha sostenuto e incoraggiato.
Sempre parlando del festival, avrò occasione di suonare anche quest’anno con il trio Drops, una delle mie esperienze musicali più emozionanti e stimolanti degli ultimi anni: assieme a due giovani musicisti eseguiremo la sonorizzazione di un film muto e accompagneremo un live painting.
All’interno del dipartimento jazz del conservatorio di Milano porti la tua consolidata esperienza, la tua cultura e la tua personale interpretazione. Immagino sempre che nell’insegnamento ad alti livelli ci sia uno interscambio tra insegnanti e allievi: tu cosa impari da loro?
Adesso sono il coordinatore dei corsi jazz del dipartimento, nato nel 1999, e sono stato il primo insegnante di jazz in conservatorio. Con grande fatica, negli anni, ho portato le cattedre da una a dieci.
All’inizio, con alcuni allievi, formai una piccola orchestra che suonava a Milano, oggi arrivano allievi già molto bravi e con una formazione completa e un senso musicale notevole. Sono uno stimolo continuo, offrono uno scambio utile anche a me che prendo così quel che c’è di nuovo.
L’arricchimento è reciproco. Cercando di insegnare si finisce per imparare, mettendo a fuoco problematiche ogni volta nuove e diverse che analizziamo, io e i ragazzi, traendole da ciò che stanno suonando.
La dimensione del concerto, per la sua unicità e per il rapporto diretto con il pubblico presente, ti è più congeniale di quella delle registrazioni?
Il mio approccio è emotivo e ho bisogno di un’atmosfera fertile di scambi. A volte, in studio, soffro per il fatto di suonare separati.
Nei concerti può esserci qualche imperfezione ma quella dal vivo è la dimensione che preferisco.
Quanto è importante la presenza e l’attenzione del pubblico?
Suonare da soli può essere tristissimo. Di recente mi piace suonare anche con gruppi piccoli e in acustico, creando un dialogo con il pubblico per rompere quell’invisibile e sottile lastra di vetro che separa chi sta sul palcoscenico da chi è in platea. Stabilire un rapporto spiegando ciò che si sta suonando, senza fare show ma in modo misurato, serve per creare quell’energia che dà chi ti ascolta.
Alla fine ringrazio sempre il pubblico che è venuto ad ascoltarci, uscendo non solo di casa ma anche dall’ascolto sempre più frammentato di brani e album, e dedicando attenzione a un progetto musicale completo.
Al giorno d’oggi, per un musicista, è sempre più importante curare la comunicazione per dar voce e risalto a ciò che altrimenti rischia di perdersi in un mare infinito di proposte e incisioni. I risultati del Top Jazz ti confermano questa tendenza?
Negli ultimi tre-quattro anni ho lavorato molto come leader. Pur avendo raggiunto una certa notorietà suonando per lungo tempo in gruppi come il quartetto di Franco D’Andrea e il quintetto di Paolo Fresu – e incidendo dischi a mio nome fin dal 1988 – adesso ho capito di poter ottenere un riconoscimento anche come leader e compositore.
Curare la promozione delle mie attività affidandomi a persone competenti mi ha sicuramente aiutato a raggiungere questi risultati e a dare i giusti riconoscimenti anche a chi suona con me.