(Intervista) TINO TRACANNA - Jazz a piene mani
Mescalina.it -25 Maggio 2015
Tino Tracanna rappresenta una vera risorsa per il jazz europeo. La sua traettoria artistica si è sviluppata su più di trent’anni di prestigiose collaborazioni tra le quali ricordiamo quelle con D’Andrea e Fresu; la sua arte è documentata in un centinaio di lavori tra quelli editi come leader e quelli realizzati come sideman, sempre in perfetto equilibrio tra modernità, capacità comunicativa, senso del timbro e libertà; la sua attività di insegnate e coordinatore al Conservatorio di Milano completa un quadro di attività in cui anche l’attenzione verso gli altri assume un peso degno di rilievo. Questa sua sensibilità e disponibilità ha trovato una gradevolissima conferma in occasione della conversazione che Tino ci ha voluto concedere nella tranquillità di casa propria, in un ambiente propizio all’espressione spontanea ed informale degli argomenti che riportiamo di seguito. Per noi è stato un piacere, un onore ma anche un’ennesima occasione di arricchimento che volentieri mettiamo a disposizione dei lettori; quando parlano certi maestri è bene ascoltare ed assimilare. Buona lettura.
Mescalina : i testi classici tendevano a definire il jazz come una musica basata sul trinomio swing – blues – improvvisazione. Questo paradigma oggi pare molto poco applicabile vista l’evoluzione che il genere ha avuto nel tempo. Se dovessi far capire a un alieno cos’è il jazz che gli diresti?
Tino : come sai benissimo la domanda é difficile, certamente questo trinomio è comunque rappresentativo di tanto jazz. Per tentare di cercare una definizione un minimo ragionevole, che comunque sarà sempre discutibile, risalirei alle origini. A New Orleans si incontrarono culture dalle matrici più disparate: la musica africana, l’opera italiana, la musica inglese e francese, il folk irlandese e così via. Queste pratiche musicali prevedevano modalità ben precise di esecuzione all’interno delle quali tuttavia erano consentite variazioni e libere interpretazioni. La fusione di queste componenti, solo apparentemente antitetiche, portò alla nascita di questo linguaggio nuovo; all’inizio, nel New Orleans o nel Dixieland, le prassi mantenevano determinati schematismi funzionali agli organici. Solo verso la fine degli anni ’20 Armstrong dimostrò come l’improvvisazione poteva estendersi al di là di qualche battuta e divenire un elemento essenziale della struttura musicale. Questa componente andò via via crescendo fino all’acme del be bop, in cui il tema era sovente secondario ed utilizzato come pretesto o spunto per l’impro.
Il jazz è quindi una musica che nasce con questa capacità di assorbire quanto c’è attorno e rielaborarlo liberamente, caratteristica peculiare che ritengo sia mantenuta anche oggi; una musica dalle forme aperte, in cui la struttura canonica “tema – impro – tema” è utilizzata contemporaneamente ad altre forme o a spunti di musica contemporanea, alle tecniche seriali o intervallari, alle musiche etniche e così via, dove l’interplay e l’improvvisazione sono spesso elemento strutturante.
Questo elemento costitutivo paradossalmente è quello che ha portato molti a dire che “il jazz è morto”; evidentemente tante sono le forme che questa musica ha assunto che spesso diventa difficilmente riconoscibile.
Tuttavia alcuni ingredienti base come l’aspetto ritmico e la ricerca improvvisativa continuano ad essere ampiamente presenti; recentemente si assiste anche ad un ritorno dell’interesse per l’aspetto compositivo e formale, con il benefico effetto di eliminare alcune punte di narcisismo improvvisativo talvolta controproducenti.
Mescalina: alludi a certe forme un po’ esasperate che per esempio il jazz europeo aveva manifestato in artisti estremi come Evan Parker o Brotzman?
Tino : no, quelle erano ricerche certamente estreme ed astratte ma avevano un loro fondamento, magari difficile da cogliere per un ascoltatore tradizionale. Penso piuttosto a quegli atteggiamenti che portano ad assoli sproporzionati rispetto alla forma generale della composizione, eccessivamente autoreferenziali e talvolta narcisistici, oppure più “dimostrativi” di abilità e quindi lontani da uno spirito di progetto; quando si ricerca l’esibizione invece che l’emozione si smarrisce inevitabilmente il senso più profondo del fare musica. In altre parola, il jazzista a volte se la “tira” un po’.
Mescalina : il jazz quindi, stando a ciò che dici, è più un’attitudine che una pratica codificata?
Tino: Ogni affermazione perentoria sulla natura del jazz per sua natura stessa è discutibile e potenzialmente oggetto di riserve. Oltre all’attitudine credo comunque che vada sottolineata la persistenza di alcuni ingredienti come quelli del ritmo e dell’improvvisazione che ho ricordato, ai quali aggiungerei un altro elemento a mio avviso sostanziale: l’interazione tra i musicisti.
In un approccio tradizionale il compositore imposta un percorso ben definito, all’interno del quale gli artisti hanno ruoli specifici funzionali alle intenzioni di chi crea.
Il jazz invece, per dirla alla Umberto Eco, è un’ “opera aperta” nella quale i musicisti si devono incontrare, ritrovare, dialogare e contribuire in modo diretto, creando quel tessuto ricco di elementi che a mio avviso rappresenta l’elemento di interesse principale di questo genere musicale.
Mescalina: se così stanno le cose che approccio adotti nella tua attività di insegnamento? Occorrerà comunque conciliare l’apertura della materia con la necessità di qualche regola base che dovrà pur sussistere visto che ormai il jazz ha consolidato una storia centenaria.
Tino: certo, il jazz ormai ha passato il secolo di vita… La prima cosa che tendo a fare è chiarire che più cose si conoscono meglio è. Per esempio se arriva uno studente invasato di Charlie Parker faccio in modo che ascolti Ornette Coleman e viceversa, a un fan di John Coltrane propongo l’ascolto di Lester Young. È necessario allargare la base dei riferimenti; i linguaggi nel jazz sono stati e sono talmente numerosi che l’unico punto di partenza sensato è ampliare la tua consapevolezza al riguardo.
Mescalina: che ci dici sull’interazione sempre più constatabile tra jazz e musica contemporanea?
Tino: In effetti è un fenomeno in essere. Nella musica contemporanea spesso i compositori elaborano principi autonomi, generatori della propria musica, alla ricerca di una grammatica orginale. In questo ambito di ricerca sono state talvolta recuperate le pratiche improvvisative e ispirazioni tratte dalle sonorità jazzistiche. Essendo il jazz una musica del 900 è stato naturale che a sua volta si sia accostato alla musica contemporanea, a volte ingenuamente ma riuscendo in altri casi a coniugarla in modo stimolante; è un fenomeno interessante, sovente di una certa complessità, difficile da accostare dato che richiede una ottima cultura trasversale ed una preparazione più raffinata. Direi una corrente pienamente attiva in questo momento. Aggiungerei anzi che il jazz oggi utilizza ampiamente ed in maniera ormai matura tecniche e principi della musica contemporanea, coniugandoli con i principi relativi alla complessità ritmica ed all’improvvisazione, dando vita a progetti di straordinaria complessità tecnica e spesso di difficile fruizione. Qui si ripropone talvolta il rischio dell’autoreferenzialità, che prima ricordavo in merito al virtuosismo strumentale e che in questo caso ricorre per motivi diversi; l’eccesso di complessità può non essere colto da un ascoltatore “medio” ed a questo punto viene da chiedersi se il problema sta in lui o nella “cerebralità” della proposta artisticache può perdere in impatto comunicativo; si ripresenta l’eterno problema della ricerca e della comunicazione, sul quale secondo me deve sempre prevalere l’onestà intellettuale e la sincerità.
Complessità e comunicazione non sono necessariamente incompatibili ma bisogna essere in grado di farle stare assieme. Ricordo ancora un concerto degli anni ’70 di Sam Rivers con Dave Holland e Barry Altschul a Umbria Jazz; di loro puoi dire tutto meno che facessero musica facile ma da soli, in trio con formazione scheletrica (sax, basso e batteria – nda), riuscivano a tenere desta l’attenzione di un pubblico non specialista in una piazza enorme! Erano insomma riusciti a trovare un magico accordo tra ricerca musicale e comunicazione emotiva.
Senza ricerca la musica non può andare avanti, tuttavia la qualità artistica non dipende solo dalla vertigine dell’innovazione ma da un complesso di fattori diversi.
Il discorso diventa quindi delicato; resta comunque la regola che più riferimenti hai più sei in grado di cogliere quello che hai davanti, esattamente come quando osservi certi quadri dell’arte contemporanea. Certo senza una buona dose di sensibilità personale puoi avere tutta la cultura che vuoi ma certe cose non puoi coglierle.
Mescalina: nei riferimenti che hai proposto fino ad ora hai sempre citato personaggi “storici” del jazz, gente attiva prima degli anni ’70 come Coltrane, Young, Parker. Come mai nessuna citazione di artisti contemporanei? Quarant’anni fa era già stato detto tutto?
Tino: No, secondo me è un problema di carattere storico. I ragazzi che oggi si accostano al piano si riferiscono in primis a Meldhau , qualche volta a Hancock; un riferimento sul sax attuale è Mark Turner. Certo si pone il problema di capire chi, tra quindici anni, sopravviverà alla cronaca ed entrerà nella storia come i grandi a cui si fa normalmente riferimento. I giovani mi propongono la contemporaneità che conoscono benissimo, molto meglio di me; sovente mi capitano studenti che mi propongono ascolti di gente di indubbio valore che nemmeno conosco: su questo sono più forti loro ed io raccomando loro sempre di segnalarmi cose interessanti. Il nostro intervento sta pertanto nell’indicare ciò che riteniamo fondamentale di quello che è il loro passato, e che per noi magari era il presente, per completare al meglio la prospettiva. Da giovanissimo amavo enormemente Coltrane ma poi Gianni Basso mi suggerì di ascoltare anche Stan Getz, e aveva ragione...
Mescalina : quidi possiamo motivare il tutto con elementi sia di opportunità didattica che di matrice generazionale?
Tino: certo, nessuno sciovinismo temporale. Ad esempio un artista contemporaneo molto importante è Steve Coleman, padre di tutti quegli studi con i tempi composti, dell’utilizzo di tecniche derivate dalla musica contemporanea, del ricorso alla tecnologia. Io li chiamo “i figli dei computer” perché credo si siano formati musicalmente con la continua presenza di questi strumenti tecnologici; attraverso questo approccio hanno creato una maniera di fare musica diversa con vette di complessità e precisione prima impensabili. Proprio questi elementi tuttavia manifestano un rovescio della medaglia; si smarrisce una certa spontaneità e l’interazione tra artisti tende ad affievolirsi. In effetti tutta questa musica, che va da Steve Coleman in poi in particolare nella scena di New York, pur interessandomi molto mi risulta talvolta un po’ fredda, eccessivamente mentale o, se si vuole, poco “corporea”; riesco a cogliere meno quel senso di “opera aperta” che é uno degli elementi che mi interessano nel jazz , ma forse il problema è più mio dato che vengo da una generazione precedente. Per me comunque la palla deve girare altrimenti la squadra, che pur può fare cose anche stupefacenti, diventa un po’ troppo seriosa ed il piacere fisico del fare jazz un po’ si smarrisce.
Mescalina: al di là di valutazioni di merito o gradimento confermi comunque che l’avvento della tecnologia ha influenzato anche il modo di comporre?
Tino: certamente, con il rischio anche di paradossi. Mi è capitato qualcuno che mi proponesse una parte prodotta al computer che risultava del tutto impraticabile al momento di volerla replicare con lo strumento, sintomo del fatto che conosceva la tecnologia ma non gli strumenti.
Al di là di questo sono convinto che la musica in generale, e quindi il jazz in particolare, debba andare avanti e la tecnologia ha offerto l’opportunità di sperimentare cose nuove; il bilancio è in definitiva è ampiamente positivo, la musica si è nel complesso arricchita.
Mescalina: a questo proposito cosa ne pensi di quel filone, denominato Nu Jazz, nato verso la fine degli anni ’90 che proponeva sonorità jazz unite ad altre di tipo funk e house e spesso alimentato da collaborazioni tra jazzisti e DJ?
Tino: io stesso ho avuto esperienze di collaborazione con DJ. Un lavoro recente, “Drops”, mi ha visto insieme a Roberto Cecchetto ed al DJ Bonnot. E’ stata una collaborazione impegnativa, non volevamo semplicemente limitarci ai solismi su di una base, intendevamo costruire qualcosa di particolare; devo dire che abbiamo trovato spunti di creatività che all’inizio non immaginavamo. In quest’ambito concertistico, oggettivamente molto distante dal jazz, succedono cose che in un ensemble di jazz appunto non possono accadere. Qui non vale mai la regola del chorus – impro – chorus, si lavora di incastri ed interplay e certi momenti risultano davvero entusiasmanti.
Ritorna il discorso di prima sul jazz fagocitatore ed elaboratore di forme musicali.
Mescalina : venendo al tuo mondo più specifico è inevitabile ricordare la collaborazione ormai trentennale con il quintetto di Paolo Fresu. Qual è il segreto di tanta stabilità? Come fate a continuare nelle motivazioni e nelle soddisfazioni dopo tanto tempo?
Tino: sai che non saprei dirti?! In prima battuta bisogna dare merito a Paolo che, anche nei momenti inevitabili di crisi, ha voluto e saputo tenere insieme il gruppo; Paolo è legato all’ensemble per motivi musicali ma non solo. Il suo successo iniziò proprio con il quintetto in Francia; poi si estese in Italia e a livello internazionale con riconoscimenti prestigiosi, quali il premio Django, e con i risultati dei dischi e dei concerti. Il combo nacque come collaborazione di cinque musicisti ciascuno dei quali portava i suoi pezzi e, grosso modo, ha sempre funzionato così; ad un certo punto Paolo ha preso in mano le redini dell’iniziativa sia per le occasioni di concerti che riusciva a creare sia per la notorietà e la personalità che aveva sviluppato nel mentre. Ha garantito quindi una guida autorevole e riconosciuta, elemento sempre importante per tenere insieme qualcosa.
In parallelo si è sviluppato un rapporto di amicizia ed affetto che ha favorito la sopportazione dei reciproci difetti che, per assurdo, si sono convertiti in motivi di simpatia e divertimento e, d’altro canto, ha permesso la valorizzazione dei pregi di ognuno.
Inoltre la lunga esperienza di concerti e di registrazioni ha messo a punto una macchina davvero efficace; i brani riescono ad arrivare perché, dopo averli creati e suonati tante volte, hai la confidenza e la sicurezza per trasmetterli bene; penso non sia mai accaduto che non ci abbiamo richiesto un bis o un tris.
Mescalina: detto da un protagonista dall’interno, quali sono le caratteristiche musicali distintive di questa formazione?
Tino : in primis l’interesse per l’aspetto melodico, vero principalmente per Paolo ma certamente anche per tutti gli altri. È un elemento tipicamente italiano che ritengo giusto sia valorizzato perché tipico della nostra cultura; abbiamo dei bei temi, molto leggibili, distillati delle nostre migliori composizioni.
Poi ci sono molti altri meccanismi che è complicato spiegare, la cosa importante è che c’è massima libertà ed ognuno ha carta bianca. Non ci sono insomma compitini da fare, si suona; una serata può andare meglio, un’altra peggio perché la musica è parecchio improvvisata ed ognuno ha la possibilità di esprimersi.
L’amicizia e l’affetto aggiunta ai valori musicali ha permesso, in definitiva, di reggere al trascorrere del tempo e il gruppo è così riuscito a sviluppare un suo “sound” molto riconoscibile e la cosa ha funzionato.
Mescalina: adesso passiamo al maestro dello strumento. Quali sono i motivi per cui il sax, inizialmente poco presente nel New Orleans, si è affermato nel jazz al punto quasi di esserne un’icona?
Tino: certamente per ragioni di timbro. All’inizio prevalevano la tromba, il clarinetto el il trombone; il sax era usato nei Vaudeville per tratteggiare dei motivetti ironici quando sulla scena usciva una figura grottesca o comunque comica. Col tempo i materiali si sono raffinati, il suono è diventato più “potente” e con scuole come quella di Coleman Hawkins lo strumento si è imposto proprio come voce protagonista; il suono, unito al vibrato e ad un’eccezionale capacità interpretativa di certi artisti ne ha determinato il successo.
La questione della presenza sonora è a mio avviso fondamentale; noi ascoltiamo registrazioni degli anni ‘20 che, per oggettivi limiti tecnici, certamente non rendono l’idea della potenza che dal vivo quei gruppi creavano.
Da King Oliver ad Armstrong fino alle prime big band il suono doveva essere impressionante. La timbrica e la corposità acustica della strumentazione era quindi fondamentale e il sax si impose una volta raggiunta la maturità tecnologica necessaria.
A questo c’è da aggiungere anche la naturale versatilità dello strumento; c’è il tenore, l’alto, il soprano, il baritono, una volta veniva usato anche il basso.
Mescalina : timbricamente il sax appare molto affine anche allo spirito afro-americano. È stata un’ulteriore componente per il successo di questo strumento?
Tino: assolutamente sì. Il concetto di timbro nella cultura africana è molto diverso rispetto a quello europeo. Classicamente da noi si è sempre apprezzata la purezza e la pulizia del suono. In Africa invece si è sempre ricercato il suono “sporco”, ricco di armonici, anche “sporchi” e di colori; pensiamo alla Kora, è uno strumento a corde piuttosto semplice che sovente viene integrato da sonagli ed altri ingredienti proprio per questa ricerca di arricchimento timbrico . Il sassofono, che nella nostra tradizione doveva ricordare gli archi, è diventato tutt’altra cosa nel jazz, soprattutto in quello tradizionale all’epoca della sua affermazione come strumento. Oggi in realtà nel jazz c’è una certa tendenza al timbro più pulito e in qualche maniera più europeo; pensa a Joshua Redman o a Mark Turner ad esempio, che a volte sembrano mettere in evidenza studi classici.
Comunque non c’è dubbio che potenza sonora e ricchezza timbrica siano gli elementi fondamentali che hanno caratterizzato il successo del sax nel genere.
Mescalina : melodia, armonia, ritmo …. Dove deve rivolgere maggiormente la sensibilità un sassofonista?
Tino: io raccomando sempre l’attenzione alla melodia. Il sassofono è uno strumento generalmente agile che permette di suonare tante note, ma qui si nasconde il rischio principale; personalmente sono molto più attratto da uno strumentista che dosa le note, cerca di personalizzare il tema, valorizza quello che sta facendo rispetto ai virtuosi. In questa logica diventa ovviamente fondamentale la cura del suono e dell’espressione.
Come sempre, per me è importante la ricerca di una sintonia con gli altri; la pura tecnica può anche essere ammirevole ma poi tutto finisce lì.
È però chiaro che per fare un buon discorso melodico la conoscenza dell’aspetto armonico è importantissima, direi imprescindibile.
Purtroppo la tendenza attuale va nella direzione di un certo meccanicismo, studi tanti pattern e li butti nel brano con scarsa varietà ritmica senza pensare troppo. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto, quello ritmico, che forse il linguaggio del sassofono può sviluppare nuove frontiere in evoluzione rispetto al fraseggio generalmente ritmicamente “piano” di tanti sassofonisti.
Mescalina: da un punto di vista compositivo l’essere sassofonista introduce qualche peculiarità rispetto ad altri strumentisti autori di brani?
Tino: una regola quasi sempre vera è che il brano risente dello strumento che il compositore suona. Un pezzo firmato da un batterista per esempio ha, in generale, una componente ritmica più specifica, più marcata; un sassofonista quando studia spesso incontra un tema melodico, se lo segna e poi ci crea attorno l’impianto armonico e ritmico. La cultura del singolo artista può però correggere questa tendenza; a me è capitato anche di partire da riff di basso, conosco pianisti che si sono basati su spunti armonici o ritmici, il tutto dipende dalla predisposizione del singolo.
Mescalina: ritornando alla questione timbrica di qualche domanda fa, viene spontaneo chiedersi come mai un fenomeno quale quello dell’ ECM-sond abbia potuto assumere il suo rilievo, dato che tutto è tranne che afro-americano….
Tino: Manfred Eicher è riuscito a creare un “sound” molto importante nel panorama moderno, sapendo scegliere musicisti estremamente coerenti alla sua estetica musicale ed anche influenzandoli a sua volta. C’è un’influenza della musica contemporanea colta, una sorta di europeizzazione del genere che ha dato vita ad un filone originale con una sua profonda forza. Questo ha attratto l’attenzione di molti musicisti europei per almeno un paio di ragioni: la prima è che la sensibilità di un musicista europeo si sposa facilmente con questo approccio e la seconda è che, almeno oggi, l’ECM rappresenta un vero punto di riferimento ed incidere per loro è un importante traguardo.
Mescalina: te la sentiresti di cimentarti con quel filone espressivo?
Tino: tra i tanti lavori che ho fatto almeno due o tre penso possano essere compatibili. In particolare penso a quello con Pierre Favre (percussioni) o a quello per quartetto e orchestra jazz con arrangiamenti scritti da Corrado Guarino, si intitolava “Affinità Elettive”, una complessa partitura per quartetto ed orchestra d’archi più strumentini: per me è stato un momento importante. Erano lavori di sintesi tra jazz e musica colta, come anche quello sui madrigali di Gesualdo da Venosa sempre con Corrado.
Erano lavori particolari, probabilmente in qualche maniera compatibili con quello spirito ECM menzionato.
Talvolta sono attratto dal sound ECM per progetti particolari ma mi può succedere di essere richiamato da dimensioni più sanguigne e corporee; il mio ultimo “Acrobats” (lavoro eccellente – nda) non è certamente un disco rubricabile come ECM.
Mescalina: pur capendo l’interesse all’interazione tra le due dimensioni non credi che, spesso, si finisca con lo snaturare entrambe?
Tino: questo è certamente un problema. Quando fai certe cose non accontenti né il jazzofilo né l’appassionato di musica classica dato che, a loro dire, tradisci entrambi i linguaggi. Forse a volte puoi rischiare di essere un po’ narcisista nel tentare queste strade ma lo spirito avventuroso è l’anima del jazz.
Anche con Paolo abbiamo fatto pezzi di Handel, di Gesualdo, di Monteverdi, a volte c’è la curiosità di tentare, di provare senza sapere a priori dove si andrà a finire.
Devo dire che comunque io sono molto contento di aver realizzato i progetti di cui ti dicevo perché alla lunga quelle cose sono rimaste; ogni tanto qualcuno viene, me le ricorda e le richiama con interesse e curiosità, segno quindi che qualcosa hanno lasciato e che continuano a vivere.
Tuttavia devo ammettere che nella maggior parte dei casi questi tentativi sono pretestuosi e lasciano un po’ il tempo che trovano.
Occorre poi distinguere altri casi dove tutto sommato prevale la dimensione del gioco; ad esempio in “Acrobats” cito, anche se per poche battute, un tema tratto dall’Uccello di fuoco di Stravinski; è chiaro che non si tratta di una ricerca o di uno studio ma solo di un momento estemporaneo, tanto che il brano è simpaticamente intitolato “Igor Sneezes”, cioè “Igor starnutisce”, giusto per definire i limiti dell’idea e la volontà di una citazione spiritosa.
Mescalina: e che ci dici del jazz italiano? A noi come ascoltatori pare in buona salute e con ottime proposte ma qual è il parere che può dare un protagonista vivendo questo mondo dall’interno?
Tino: certamente tra le nuove leve, anche tra i giovani che vengono al Conservatorio, ci sono elementi estremamente interessanti. Fino a un po’ di tempo fa la scena mancava di progettualità; mentre a livello europeo si notavano progetti duraturi, centrati attorno ad idee precise, da noi era tutto un po’ più estemporaneo, prevalevano artisti singoli, molto validi principalmente per la tecnica che per idee progettuali.
Negli ultimi anni c’è stata un’inversione di tendenza, i progetti interessanti abbondano ma permane un problema di visibilità, di opportunità di farsi conoscere.
Ricordo che nei nostri primi anni con Paolo avevamo avuto la possibilità di aprire per gente come Ornette Coleman al Ciak in Milano; con un gruppo bergamasco chiamato Ziggurat avevo suonato prima di Charlie Mingus all’Arena.
Erano occasioni importanti nelle quali ti facevi ascoltare, i giornalisti ti conoscevano e scrivevano di te.
Oggi questo succede molto meno; un progetto è valido se ci sono buoni musicisti e idee valide ma se non hai la possibilità di svilupparlo è destinato a morire; per portare avanti un progetto un gruppo di jazz deve avere alle spalle un bel numero di concerti, non c’è nulla da fare, altrimenti la cosa svanisce lì e passi da un’idea all’altra per stanchezza.
Questo è un problema organico e strutturale in Italia, il paese non crede nei propri artisti al contrario ad esempio della Francia che a questo dedica molte energie economiche.
Da noi si cerca il concerto col grosso nome così da accontentare il produttore e l’assessore di turno; manca sovente l’operatore culturale, quello che organizza una rassegna in cui a fianco dell’artista noto programma altri nomi, stimolando così la curiosità verso nuove proposte e dando a queste la possibilità di emergere.
In definitiva manca un’attenzione critica ai fenomeni musicali, manca la promozione di nuovi artisti in concerti di risonanza così da dar loro l’occasione di comparire e quindi è difficile avere la base per una vita artistica duratura; ci sono ottime realtà ma, purtroppo, più che vivere sopravvivono.
Mescalina : purtroppo è ora di chiudere e, come nostra consuetudine, vorremmo sapere quali sono i cinque dischi che Tino Tracanna si porterebbe nella classica isola deserta….
Tino: giusto l’altro giorno in un concerto abbiamo suonato il brano “Better Git It in Your Soul” tratto da “Ah Um” di Charles Mingus, un disco eccezionale per molti motivi: impro collettiva, tema scritto unito a un po’ di caos, potenza e gioia. Questo quindi lo cito subito.
Aggiungerei poi il superclassico “Kind of Blue” di Davis, “Crescent” di John Coltrane ed Ellington al Cotton Club.
Comunque se devo citare un quinto titolo penso a quel lavoro meraviglioso che è “The Bridge” di Sonny Rollins; è un piccolo grande capolavoro, ogni volta che lo ascolti ci scopri una cosa nuova, presenta una grande intelligenza nell’organizzazione del piccolo gruppo, forse grazie al contributo di Jim Hall.
Comunque ultimamente sono attratto dal sound delle big band, dal periodo pre bop; oltre ad Ellington penso a gente come Count Basie o anche Benny Goodman.
E poi come fai a dimenticare Ornette Coleman, specie quello dei lavori prima di Free Jazz che veramente rovesciarono le regole del gioco o “Out to Lunch” di Dolphy….
In verità dovrei darti almeno una cinquantina di titoli.
Ma va benissimo così; è sempre un piacere ed un arricchimento ascoltare artisti che accettano di parlare, spiegare e raccontare e, nella nostra sia pur breve esperienza, abbiamo notato che nel jazz è facile trovare persone con questa attitudine. E’ anche per questo che il genere resta “alive and well”. Un grazie di cuore a Tino e una consiglio davvero spassionato: andate a cercarvi il suo “Acrobats” (2013) e capirete come si può fare del jazz vivissimo a 100 anni dal bing bang iniziale. A presto!